LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto dall'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale I.N.P.S., - in persona del presidente pro-tempore elettivamente domiciliato in Roma, via a della Frezza, 17, presso gli avv.ti Aldo Catalano, Luigi Maresca ed Antonino Angelo che lo rappresentano e difendono giusta procura speciale in calce al ricorso, ricorrente, contro Martini Elisa, intimata, per l'annullamento della sentenza del Tribunale di Firenze in data 2 maggio 1988 dep. il 18 maggio 1988 (r.g. n. 435/1987); Udita - nella pubblica udienza tenutasi il giorno 17 novembre 1989 - la relazione della causa svolta dal cons. rel. dott. Evangelista; Udito l'avv. Catalano; Udito il pubblico ministero nella persona del sost. proc. gen. dott. Giovanni Gazzara che ha concluso per il rigetto del ricorso. RITENUTO IN FATTO Il pretore di Firenze con sentenza del 21 settembre 1987, condannava, l'I.N.P.S. a corrispondere a Martini Elsa l'assegno ordinario di invalidita' con decorrenza del 1 febbraio 1986 e con gli interessi legali e la rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT. Avverso tale sentenza proponeva appello l'I.N.P.S., limitatamente al capo concernente la condanna agli interessi e alla rivalutazione, ma l'adito Tribunale di Firenze rigettava il gravame. Rilevava, in particolare, a tal fine che, dopo la sentenza n. 408/1988 della Corte costituzionale, dovevano ritenersi venute meno le ragioni preclusive dell'automatica rivalutazione dei crediti per prestazioni previdenziali, dovendosi, di conseguenza anche ad essi applicare le statuizioni di cui all'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ. Ricorreva per cassazione l'I.N.P.S. lamentando violazione e falsa applicazione di detta norma altre che insufficiente e contradditoria motivazione su punti decisivi della controversia. OSSERVA IN DIRITTO 1. - Deduce il ricorrente che l'impugnata sentenza del tribunale di Firenze e' censurabile per aver fatto applicazione, in contrasto con l'orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato sul punto del disposto dell'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ. al caso di ritardo nell'adempimento di obbligazioni previdenziali, come quella di specie, concernente l'erogazione dell'assegno ordinario di invalidita'. Tale essendo l'oggetto della censura, reputa la Corte rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della menzionata norma (nel testo di cui alla legge n. 533/1973), in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, nella parte in cui non consente la sua applicazione ai crediti per prestazioni previdenziali. 2. - Essendo ormai saldamente acquisito il principio che vuole sottoposto dalla disciplina dell'art. 1224, secondo comma, cod. civ. e non dall'art. 429, terzo comma cod. proc. civ. il danno da svalutazione per crediti previdenziali tardivamente adempiuti la rilevanza della questione si palesa evidente, per il nesso di pregiudizialita' rispetto al presente giudizio: l'esito di questo, invero, dipende dalla soluzione di detta questione, dovendosi procedere alla cassazione dell'impugnata sentenza - in adesione al ricordato jus receptum, dal quale non ritiene la Corte di potersi discostare - ovvero, alla reiezione del ricorso a seconda che la questione medesima venga dichiarata non fondata o, all'apposto il suo esame si concluda con la declaratoria dell'illegittimita' costituzionale della norma nella parte censurata. 3. - Nel merito, la questione non appare manifestamente infondata per le ragioni che seguono. 3.1. - La sancita esclusione dell'applicabilita' dell'art. 429, terzo comma, del cod. proc. civ. al caso di ritardo nello adempimento di crediti per prestazioni previdenziali sembra, in primo luogo vulnerare il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. 3.1.1. - Giova al riguardo premettere, atteso il rapporto di specialita' che intercorre fra l'art. 1224 del codice civile e la sopra citata norma, che la presente censura non viene prospettata assumendosi quest'ultima come mero tertium comparationis per pervenire al risultato (inammissibile in sede di verifica dell'osservanza del menzionato principio: v. Corte costituzionale nn. 46/1983; 2/1982; 80/1972) di sottrarre la fattispecie judiconda alla disciplina generale dettata con la prima. La censura ricade invece, sulla stessa norma derogatoria, cosi' recependosi l'insegnamento (v. Corte costituzionale n. 80/1969 e per puntuali applicazioni del principio ivi sanciti n. 117/1975) secondo il quale il principio di eguaglianza richiede che la legge singolare corrisponda ad una obiettiva diversita' della situazione considerata - rispetto a residue situazioni fra loro omogenee -, la quale giustifichi percio' razionalmente la disciplina differenziata per questa adattata. Occorre cioe' che la ratio della legge si esaurisca nella fattispecie da essa disciplinata e non si estenda a situazioni concrete o ipotizzabili, le quali, pur presentando elementi comuni con l'altra, se non diversificano in modo tale da non rendere giustificabile l'applicazione anche ad esse della normativa disposta per il caso singolo. Ove queste condizioni non esistano, vale a dire ove la ratio della legge derogatrice del regime comune sia tale da coprire situazioni omogenee rispetto a quella singolarmente considerata, si avra' violazione del principio di eguaglianza perche' si determineranno ingiustificate situazioni di vantaggio o di svantaggio per i soggetti del rapporto regolato da detta legge, in relazione ai soggetti della serie di rapporti omogenei che ne sono stati esclusi. Solo in questi limiti e nella discrezionalita' del legislatore ordinario stabilire l'ambito della disciplina normativa da adottare non rientra nel giudizio di costituzionalita' accertare che detti limiti siano stati rispettati e precipuamente accertare che non vi e' contrasto fra la ratio della legge e la sua limitazione ad un caso concreto non giustificata da una obiettiva diversita' di esso rispetto ad altri casi a cui quella disciplina potrebbe estendersi. 3.1.2. - Orbene, la Corte costituzionale e' reiteratamente intervenuta sulla vexata quaestio dell'esclusione dell'applicabilita' dell'art. 429, terzo comma, del cod. proc. civ. ai crediti per prestazioni previdenziali, affermandone e poi, piu' volte, ribadendone la legittimita' costituzionale: e, tuttavia, da un lato, in una sola sentenza (n. 162/1977) risulta compiuta una puntuale ricognizione dei tratti differenziali del credito di lavoro rispetto a quello previdenziale, vale a dire della sussistenza di quell'eterogeneita' delle situazioni poste a raffronto che, alla luce del sopra ricordato principio, apparve allora fondare il retto esercizio della discrezionalita' legislativa nel sancire l'esclusione de qua; mentre, dall'altro lato, tale ricognizione sembra per larghi tratti superata sia dalla giurisprudenza susseguente della stessa Corte costituzionale, sia da sopravvenuti mutamenti del tessuto interpretativo del vigente ordinamento e, quindi, del "diritto vivente" che ne discende. La piu' remota decisione (n. 1621/1977) riassumeva in tre considerazioni le ragioni della riscontrata legittimita' dell'esclusione in questione: a) il credito previdenziale "anche se puo' avere il suo antecedente in un rapporto di lavoro dipendente, ha, rispetto all'Istituto erogante, caratteristica autonoma di natura pubblicistica"; b) "il fatto che le funzioni non vengono rapidamente liquidate (cio' che deve giudicarsi deplorevole e degno della massima attenzione del legislatore e dell'autorita' amministrativa) non puo' essere certamente scritto al proposito degli utenti debitori di lucrare sulla probabile svalutazione monetaria"; c) "poiche' il ritardo nel pagamento in un certo senso non e' volontario (ma sostanzialmente derivante dalla procedura di liquidazione e da complicazioni burocratiche) e' da escludere che la sanzione della rivalutazione avrebbe effetto di remora e per cosi' che, dissuasiva come nel caso dei crediti dei lavoratori verso il datore di lavoro privato". Peraltro, successivamente a tale decisione, gli orientamenti ermeneutici intorno all'art. 1224 del cod. civ. - nel cui ambito di operativita' l'eslusione dell'applicabilita' dell'art. 429, terzo comma, del cod. proc. civ. riconduceva i crediti previdenziali, soggetti, per la loro natura pecuniaria, al principio nominalistico - si venivano significatamente evolvendo, in guisa tale da determinare un sempre piu' compiuto allinamento della regolamentazione di detti crediti, sotto il profilo delle conseguenze del ritardo nell'adempimento, a quella dei crediti di lavoro, non altrimenti giustificabile che per l'avvertita esigenza d'una sostanziale parita' di trattamento rispetto a situazioni non dissimili; cosi' come, parallelamente, si venivano precisando l'esatto significato e l'effettiva portata dello stesso art. 429. Cominciando da quest'ultimo punto, va innanzitutto sottolineato il progressivo consolidamento del principio per cui la tecnica adoperata dal legislatore del 1973 nel dettare la norma speciale e' consistita nell'attrarre i momenti della maturazione del credito, sua svalutazione e liquidazione in un unica fattispecie complessa, entro la quale non v'ha piu' posto per la mora, risultando l'inadempimento equiparato al fatto illecito in relazione del regime risarcitorio di valore delle obbligazioni. Orbene, quand'anche voglia escludersi che il credito retributivo siasi definitivamente trasformato da credito di valuta in credito di valore - cio' che pure e' stato autorevolmente sostenuto, argomentandosi dalla nozione di retribuzione in senso sociale, quale risultante dal precetto costituzionale e che si e' inverata in particolari strumenti e meccanismi, come quello della scala mobile dei salari e quello offerto appunto dallo stesso art. 429 nel testo novellato, cosi' da far ritenere ormai attivato il passaggio del salario nominale al salario reale -, resta, nondimeno jui receptum un interpretazione della teste citata norma che ne valorizza l'idoneita' da imporsi una tecnica liquidatoria affine a quella corrente per le obbligazioni di valore. Per il ritardo nell'adempimento di una obbligazione di tal tipo la maggior somma dovuta per effetto della svalutazione monetaria non rappresenta il maggior danno, previsto dal secondo comma dell'art. 1224 del cod. civ. in ordine alle sole prestazioni (originariamente) pecuniarie, ma la commisurazione del danno originario ai nuovi valori della moneta: e poiche' la maggiore quantita' monetaria vale a risarcire il primitivo danno, e cioe' ad assicurare al creditore il valore intrinseco della prestazione mancata, non puo' ritenersi opponibile dal debitore la non prevedibilita' della svalutazione monetaria (cfr. ex plurinus, Cass. 2850 del 1982). In buona sostanza, allorche' la liquidazione del danno venga adeguata al mutato valore della moneta per rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato, la maggior somma attribuita non rappresenta il risarcimento di un maggior danno, ma soltanto una diversa espressione numerica del danno medesimo, ritenendo inalterata l'entita' iniziale del risarcimento: operazione nella quale non trovano collocazione ne' la valutazione della mora, ne' quella di atteggiamenti soggettivi del debitore, ne' la necessita' della prova del concreto pregiudizio sofferto a causa dell'intervenuto mutamento dei valori monetari. Inoltre, attraverso la liquidazione in tal guisa eseguita non viene determinata che la sola entita' del danno originariamente causato, mentre occorre altresi' ricompensare il pregiudizio subito per la mancata tempestiva disponibilita' della somma di risarcimento sicche' a questa funzione, diversa ed autonoma, soccorrano gli "interessi compensativi" che nascono dal medesimo fatto generatore dell'obbligazione risarcitoria e percio' naturalmente si cumulano con la rivalutazione (v. Cass. 725/1980; 5333/1979, fra le numerose altre conformi) - Ed un simile meccanismo - che e' centrano al sistema delle obbligazioni pecuniarie, nelle quali il deprezzamento della moneta durante la mora non incide sull'entita' della somma di denaro originariamente dovuta, ostandovi il principio del valore nominale, ma rileva unicamente ed in via indiretta sub specie damni, sicche' le rivalutazioni del credito attraverso l'eventuale applicazione degli indici ISTAT di variazione dei prezzi costituisce null'altro che una tecnica semplificata di accertamento e liquidazione del danno da ritardo (v. Cass. 2368/1986; 3776/1979), operata la quale non v'e' piu' spazio per la comprensione di interessi in funzione, essi stessi, risarcitoria, come quelli suddetti, essendo invece consentita la sola liquidazione maggiorata di interessi decorrenti dal giorno del suo compimento, nel quale cioe' detta obbligazione risarcitoria (di valore) viene concretamente quantificata, trasformandosi in debito di valuta, e' quello proprio anche dell'art. 429 citato, che comporta, prescindendo sia dalla mora che dalla liquidita' del credito, corresponsione di interessi dal di' della motivazione del diritto oltre che rivalutazione delle somme dovute (v. cass. 376/1988; 3262/1985; 8155/1987; 2152/1982; 4838/1978; 2648/1976, fra le numerose altre conformi). Cosi' attribuito il risultato dell'insensibilita' del fenomeno rivalutativo del credito da lavoro all'atteggiamento subiettivo del debitore, se ne deve dedurre che il diritto vivente, quale si e' venuto precisando dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 162/1977, configura il fenomeno stesso in termini che rendono inattuali l'allora compiuta ricognizione - per vasti aspetti affidata, come si e' visto, al rilievo da riconoscere ad atteggiamenti siffatti - dai motivi di razionalita' della scelta compiuta dal legislatore nel delineare l'ambito di quantivita' dell'art. 429 della Costituzione. Rileva, invece, precipuamente, alla stregua di tale diritto, la natura del credito, elevata dalla sua funzione: la conduzione di mero consumatore propria del creditore induce a ritenere che i proventi del lavoro siano semplicemente dichiarati alle normali, personali e familiari, esigenze di vita, anche le conseguenze del ritardo nell'adempiment o, obiettivamente valutate, si commisurano al maggior costo (in espressione monetaria) dei beni di consumo, il cui acquisto al tempo di scadenza dell'obbligazione ugualmente avrebbe sottratto la somma agli effetti della inflazione - Tale sembra, ormai, nell'attuale prospettiva ricostruttiva, la ratio dell'art. 429 citato, rispetto alla quale la stessa funzione dissuasiva della norma (in ordine a comportamenti speculativi ex parte solventis) si colloca nel novero delle risultanze effettuali e percio' prive di quell'autonomo significato qualificante, alla cui stregua soltanto potrebbe riconoscersi la ragionevolezza della scelta suddetta. Cio' che importa, assumendo, cosi', rilevanza individuatrice della ratio legis, e' la necessita' di difendere il potere d'acquisto di chi deve utilizzare il reddito di cui e' creditore per procacciarsi quanto occorre ad assicurare, a lui ed alla sua famiglia, una esistenza libera e dignitosa: ed in tal senso e per questo fine, di rilievo anche costituzionale (art. 36 della Costituzione) la norma e' strutturata; e che, poi, tale struttura consegua anche il risultato di porre remore ad ingiustificati ritardi nell'adempimento e' circostanza che attiene alle possibili implicazioni dell'apprestato regolamento, ma non idonea a spiegarne la radice razionale, proprio perche' detta difesa e' operativa in favore del creditore anche a prescindere, come si e' sopra ricordato, da qualsiasi colpa nel ritardo della controparte. In questo senso, del resto e' venuta evolvendosi anche la giurisprudenza costituzionale. Mette conto, al riguardo, rilevare come l'argomento, che (con la sentenza n. 162/1977) faceva leva su un'asserita mancanza di giustificazione per ipotizzare una utile esplicazione della funzione dissuasiva nei confronti di enti pubblici che non perseguono, in quanto tali, fini di arricchimento nel ritardare l'adempimento, sia stato sostanzialmente trascurato allorche' si e' giudicato conforme alla Costituzione (con la conseguenza dell'infondatezza della relativa questione) il "diretto vivente" che assicura la rivalutazione automatica, con aggiunta degli interessi, per i crediti dei pubblici dipendenti, ivi compresi i dipendenti dello Stato (cosi' espressamente, Corte costituzionale sentenza n. 52/1986). Ma quel che massimamente preme rilevare, quale indizio ancor piu' significativo dell'abbandono dell'ottica propria della sentenza n. 162/1977, e' che la Corte, superando un precedente contrario orientamento (sent. n. 139/1981), ha ritenuto costituzionalmente illegittima (v. sentenza nn. 300/1986 e 204/1989) le norme che precludevano l'operativita' dell'art. 429, terzo comma, del c.p.c. per il periodo successivo all'apertura di procedure concorsuali ( e fino al momento in cui lo stato passivo diviene definitivo), durante il quale al debitore e' de jure sottratto il potere di procedere all'adempimento, per non alterare la par condicio creditorum, sicche' nessun rilievo puo' riconoscersi alla ripetuta funzione dissuasiva o ad atteggiamenti soggettivi del debitore stesso o, infine, alla sussistenza di impedimenti che prescindono dalla sua volonta': rileva per contro, ed in cio' la Corte ravvisa la ragione del dichiarato contrasto di dette norme con gli artt. 3 e 36 della Costituzione, la necessita' di dipendere, alla stregua di questi fondamentali precetti e nonostante il contingente involontario impedimento del debitore, il valore del credito di cui trattasi, in relazione alla sua natura. Di particolare importanza, in quest'ordine di idee, appare il tessuto logico della sentenza n. 204/1989: ivi la Corte ha ricordato che il precedente negativo arresto su analoga questione (sent. n. 139/1981) era, fondamentalmente, ispirato alla considerazione per cui, essendo stato, in passato, individuato "il ruolo" dell'art. 429, terzo comma, del cod. proc. civ. nella "remora da esso posta al mancato soddisfacimento dei crediti da lavoro da parte dell'imprenditore", era apparso conseguente ragion d'essere a siffatta funzione della norma "la' dove il soddisfacimento non e' piu' consentito dopo la dichiarazione di fallimento se non attraverso l'espletamento della procedura fallimentare"; ed ha poi, rilevato come tale impostazione non possa non essere superata allorche' si riconosca che, fuor d'ogni dubbio "la svalutazione dei crediti di lavoro costituisca una forma di attuazione dell'art. 36 della Costituzione" ed in particolare che "essa opera non tanto come remora posta all'inadempimento dell'imprenditore, quanto come strumento destinato ad assicurare l'opportunita' della garanzia apportata dall'art. 36 della Costituzione tramite l'adeguamento del loro ammontare secondo dati criteri". V'e' dunque un'esplicita affermazione dell'avvenuto superamento delle meno recenti operazioni ricognitive della ratio della norma in questione e delle implicazioni che se erano tratte al fine di affermare la legittimita' costituzionale di talune limitazioni poste alla sua operativita'; non meno che l'indicazione delle prospettive di applicazione che si dischiudono una volta asservita quella ratio al precipuo scopo di tutela del livello di reddito del lavoratore, cosi' come impone l'assetto propositivo della norma stessa, alla stregua delle superiori considerazioni desunte dall'attuale assetto della giurisprudenza ordinaria. Quanto all'altro profilo evolutivo degli orientamenti ermenentici - concernenti le peculiari applicazioni date dall'art. 1224 del cod. civ. in materia di crediti previdenziali, deve rilevarsi come sia venuta consolidandosi una interpretazione che, anche in tali crediti ravvisa connotati che li rendano sostanzialmente assimilabili a quelli di lavoro e percio' bisognosi di non minore protezione rispetto al fenomeno inflattivo. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 408/1988, nel dichiarare non fondata la questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 1224 cit. e 429, terzo comma, del cod. proc. civ., nella parte in cui - ad avviso dei giudici allora remittenti - assoggettano a diverso trattamento, in punto di onere della prova del danno da svalutazione monetaria, i crediti per prestazioni previdenziali, da un lato, e quelli di lavoro dall'altro, ha esplicitamente riconosciuto che, ove la denunciata disparita' fosse effettivamente riscontrabile, difficilmente potrebbe risultare giustificata in relazione agli artt. 3 e 38 della Costituzione (v. punt. 14 del "Considerato in diritto"). Onde non sembra azzardato desumere che le ipotetiche diversita' fra le due categorie di credito (apparse desimenti congiuntamente in occasione della pronuncia della sentenza n. 162/1977), sebbene ricordate dalla stessa sentenza n. 408/1988 allorche' al detto precedente fa riuso, sono accreditate, nell'ottica propria della piu' recente decisione, di un minore peso specifico che in passato, in quanto il riconoscimento che una loro astratta idoneita' a legittimare trattamenti diversificati e' contestuale all'affermazione della perdita di tale idoneita' discriminante in riferimento all'eventualita' che l'assetto normativo in concreto operante appare tale da compromettere la tutela costituzionalmente dovuta "al modesto creditore previdenziale" (v. punto diciassette della medesima parte). Ed in effetti, la sentenza esclude la sussistenza dei profili di illegittimita' costituzionale della allora proposta censura, sol perche' il vigente sistema legislativo e' suscettibile di una interpretazione che, almeno in parte qua, assunta come "diritto vivente" raggiunge proprio "quegli scopi di tutela" del teste' menzionato creditore, perseguiti con la proposta censura. Scopi apparsi alla Corte insolubili in quanto: a) "le somme percepite a titolo di prestazione previdenziale sono per loro natura, piu' che per le particolari qualita' del singolo creditore considerato, normalmente destinate alle comuni esigenze di vita ed in quanto tali sensibili al danno conseguente alla svalutazione monetaria"; b) "in caso di tardivo pagamento deve provvedersi ad eliminare tale danno per quando sia impossibile allegare la prova di uno specifico pregiudizio"; c) si impone "una concezione della moneta come bene fungibile e strumento di scambio, dotata, dunque di valore nella misura in cui sia reso possibile al creditore adoperarla utilmente a tale scopo" e "l'assunto conseguente costo sociale della stabilita' monetaria non e' necessariamente destinato a passare attraverso la soluzione che sacrifichi il creditore, cui il tempestivo adempimento apporta soltanto i mezzi per vivere". E si tratta, all'evidenza, di scopi innegabilmente comuni alla tutela del titolare di crediti di lavoro, dovendosi riconoscere alla stregua delle superiori osservazioni che la ratio dell'art. 429, terzo comma, del cod. proc. civ. gravante tutta intorno al nucleo dell'ivi parimente riscontrata necessita' o normalita' della destinazione della prestazione al soddisfacimento di comuni esigenze vitali, con le conseguenti implicazioni in tema di ritardo nell'adempimento. 3.1.3. - Sintetizzando, dunque, e finalizzando il messaggio precettivo ricavabile dai ripetuti orientamenti giurisprudenziali, specialmente costituzionali, in subjecta materia, sembra a questa Corte di poter osservare: a) la legge singolare (art. 429, terzo comma, del cod. proc. civ.) che ha isolato i crediti di lavoro dagli altri crediti pecuniari soggetti al generale principio unominalistico, per attribuire loro ivi prevista protezione, in particolare rispetto al fenomeno della svalutazione monetaria verificatasi nelle more dell'adempimento trova la sua ratio nella necessita' di difendere il potere di acquisto del creditore, in considerazione della natura propria di detti crediti il cui oggetto e', di norma, destinato al consumo per il soddisfacimento degli ordinari bisogni; b) natura identica presenta il credito previdenziale del modesto consumatore, onde anch'esso abbisogna di analoga protezione; c) la ratio della legge singolare appare, pertanto, potenzialmente estesa anche alla situazione del modesto creditore previdenziale e di conseguenza la concreta esclusione di questi dall'ambito obiettivo di operativita' di detta legge e', del pari; potenzialmente lesiva del principio di eguaglianza, nella sopra riferita prospettazione, dovendosi, alla stregua dell'attuale assetto legislativo formato dall'evoluzione del "diritto vivente", ritenere venute meno le ragioni giustificative di siffatta esclusione; d) argine alla concreta estrinsecazione di tale potenzialita' lesiva e' posto dal fatto che lo stesso diritto vivente, pur assegnando il credito previdenziale all'area di operativita' dell'art. 1224 del cod. civ. e non anche dell'art. 429, terzo comma, del cod. proc. civ., riesce nondimeno a garantire al credito suddetto una tutela, in parte qua, sostanzialmente assimilabile a quella che lo jus singilare assicura la credito di lavoro. 3.1.4. - Va, peraltro, considerato che l'art. 429, terzo comma, del cod. proc. civ. contiene varie disposizioni rispetto alle quali deve essere verificata la persistenza di detta garanzia con effetti impeditivi della censura di violazione dell'art. 3 della Costituzione. Fra queste, per quanto qui direttamente interessa, vi sono le disposizioni relative rispettivamente all'automatismo della rivalutazione ed alla quantificazione della prestazione dovuta per il ritorno del danno determinato dalla perdita di valore della moneta. Una verifica in ordine alla prima e' stata appunto effettuata dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza n. 408/1988, riconoscendosi che il sistema di prevenzioni utilizzabile in giudizio dal modesto creditore previdenziale, che lamenti il danno di svalutazione monetaria connesso al ritardo nell'adempimento della prestazione, e la possibilita' di utilizzazione, da parte del giudice, ai fini della relativa liquidazione, dei parametri forniti dagli indici ufficiali dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, assicurano al detto creditore una tutela, per tale parte, non desumibile da quella che gli offrirebbe diretta applicabilita' dell'art. 429 della Costituzione. A diverse conclusioni deve, invece, pervenirsi ove ad analoga verifica si proceda (cio' che non rientrava nei limiti dell'incidente di costituzionalita' esaminato con la ripetuta sentenza n. 408/1988) in riferimento alla seconda delle mentovate disposizioni, che comporta, come dinnanzi ricordato il cumulo della rivalutazione e degli interessi sulla somma rivalutata dal di della maturazione del diritto. Anche a questo fine devesi dar conto dei termini in cui si e' venuto evolvendo il "diritto vivente". Con sentenza n. 3661/1981 questa Corte ebbe a formulare il principio per cui se nelle obbligazioni pecuniarie, gli interessi legali, che, in base all'art. 1224, primo comma, del codice civile, decorrono di diritto a carico del debitore in mora, rappresentano il lucro cessante presunto che il creditore avrebbe ricavato dall'impiego della somma dovutagli e vanno tenuti distinti dal risarcimento del "danno maggiore" che puo' spettare al creditore stesso ai sensi del capoverso della norma citata, in quanto tale risarcimento non assorbe detti interessi bensi' si aggiunge ad essi". La medesima regola del "cumulo" venne poi affermata (sent. n. 1607/1987), esattamente in tema di credito previdenziale pecuniario di non rilevante importo, e ribadita, ancora in riferimento al creditore pecuniario cui competi la qualifica di "modesto consumatore", dalle sentenze nn. 5135, 5136 e 5137 del 1988. Ma questa linea interpretativa, chiaramente mossa da esigenze di razionalizzazione del sistema normativo, ravvisabili nell'avvertita' necessita' di assicurare al creditore previdenziale, modesto consumatore, una tutela non dissimile da quella fruita dal titolare di crediti di lavoro, non ha ricevuto l'avallo delle s.v. di questa Corte, le quali (v. sent. n. 5294/1989) hanno negato che il testo dell'art. 1224 codice civile e la sua ratro consentano un'operazione armeneutica intesa a scomporre il dettato in due distinti nuclei normativi, l'uno dettato per la tutela risarcitoria dei creditori pecuniari che avrebbero impiegato il denaro in modo vantaggioso, l'altro per ovviare al pregiudizio di chi non ha potuto acquistare tempestivamente beni e servizi per gli ordinari bisogni di vita, conseguendo percio' il diritto al cumulo di interessi e rivalutazione nei modi suddetti. Le s.v. hanno percio' ritenuto di dovere ribadire la consolidata giurisprudenza (v. sentenze nn. 300/1977; 1377/1981; 1647/1986; 2834/1986; 2368/1986; 3004/1986; 2545/1987; 1171/1988; 260/1988, fra le numerose altre conformi) sull'inammissibilita' del cumulo della rivalutazione con gli interessi nella fattispecie legale di cui all'art. 1224 del codice civile; e, con specifico riguardo alla posizione del creditore previdenziale, hanno conclusivamente rilevato che la sua classificazione nella categoria di "modesti consumatori" ha una rilevanza, ai fini della disciplina giuridica dell'inadempimento, esclusivamente probatoria (in quanto consente l'utilizzazione delle gia' ricordate presunzioni di danno, comparate alla qualita' personali ed alla natura del credito), mentre deve escludersi; in difetto di esplicita e specifica previsione normativa, l'attribuzione di interessi legali (di qualsiasi natura), in aggiunta al risarcimento integrale del danno rappresentato dall'importo della "rivalutazione", con un procedimento sostanzialmente mutato dalla disciplina di crediti di valore o da quella dei crediti di lavoro. Ed allora, appare chiaro che ne risulta compromessa quella situazione di equilibrio in presenza della quale, per le ragioni sopra esposte, l'esclusione del creditore previdenziale dalla tutela ex art. 429, terzo comma, del codice di procedura civile poteva ritenersi non lesiva del principio di eguaglianza. La tutela complessivamente apportata, in favore del creditore previdenziale che sia modesto consumatore, dalla norma generale finisce per essere ben meno vantaggiosa di quella attribuita dalla norma singolare al titolare di crediti di lavoro: infatti, come e' stato largamente notato, con un'inflazione che si e' ormai collocata intorno al 5%, colui che, si presume, impieghi il denaro per la soddisfazione dei bisogni familiari e personali e che cosi' consumi - senza risparmio possibile in investimenti, il suo reddito previdenziale, non diversamente da chi trae dal lavoro i mezzi di sussistenza, nulla potrebbe pretendere oltre l'importo degli interessi legali, a meno che non fornisca una - problematica - prova di un diverso impiego del denaro. Si verifica dunque esattamente la situazione lesiva del principio di eguaglianza potenzialmente insita nell'esclusione in questione e concretamente determinata dalla rottura del suddetto equilibrio: e' cioe' la norma singolare che affronta specifi rimedi di salvaguardia del particolare creditore che destini ad alimonia la prestazione oggetto del credito e di ossicurazione del suo potere d'acquisto isola poi arbitrariamente una sola categoria di soggetti, come destinatari delle relative disposizioni, trascurando l'altra che pur versa in una condizione sostanzialmente identica (se non deteriore, e percio' maggiormente bisognosa di quei rimedi, essendo nozioni di comune esperienza che, di norma, quanti vivono potendo fare affidamento soltanto sulle prestazioni previdenziali loro dovute ben difficilmente attingano livelli di reddito paragonabili a quelli che puo' offrire l'impiego di energie lavorative). E del resto, che la ratio dell'art. 429 della Costituzione (a prescindere dal tenore letterale e dalla collocazione della norma che hanno fondato quel "diritto vivente" consistente nell'interpretazione restrittiva) si estenda potenzialmente fino a ricomprendere la condizione dei creditori di prestazioni previdenziali non e' sfuggito ai canditoris, che hanno poi emesso di trarne le dovute conseguenze in sede di stesura del tessuto disperitivo concretamente adottato: non e', invero senza significato che lo stesso autore dell'emendamento (Coccia) da cui trae origine la parte della citata norma qui rilevante abbia avvertito la necessita' di accuminare in un'unica menzione il credito di lavoro e quello previdenziale allorche', nella sua dichiarazione di voto sul complesso del provvedimento, pronunciata nella seduta del 23 luglio 1971 delle commissioni riunite giustizia e lavoro della Camera (V Legislatura) ha sottolineato l'importanza della disposizione come quella "che introduce per la prima volta nel nostro sistema il principio, in questo campo, che il salario o la pensione costituiscono credito di valore e non di valuta". 4. - La teste' rilevata disparita' di trattamento, con la minor tutela che ne consegue nei confronti di quel modesto creditore che, di norma, e' l'aspirante al sollecito adempimento delle prestazioni previdenziali dovutegli, determina poi un assetto normativo in contrasto anche con l'art. 36 della Costituzione, sotto il profilo dell'insufficiente garanzia di "adeguatezza" delle prestazioni stesse. Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale chiaramente emerge l'orientamento inteso alla ricostruzione del trattamento di quiescenza in genere, ma anche della pensione, in ispecie, come retribuzione differita. Le pronunzie al riguardo sono numerosissime (v. sentenze nn. 3/1966; 78/1967; 75/1968; 112/1968; 140/1971; 52/1972; 85/1972; 203/1972; 204/1972; 184/1973; 188/1973; 191/1974; 24/1975; 83/1979, ex plurinus e, sia pure attraverso varie sfumature di significato, insistono sul concetto, specialmente in riferimento all'evoluzione dell'ordinamento previdenziale che, se, anteriormente al passaggio dal sistema contributivo di liquidazione delle pensioni a quello retributivo, induceva ad accordare prevalenza all'assegnazione di retribuzione differita ancorata alla massa contributiva accantonata ed al suo rendimento, successivamente a tale momento fa acquisire rilievo determinante al collegamento fra pensione e retribuzione ed alla configurazione dell'una come una sorta di prosecuzione dell'altra per il tempo in cui si siano prodotti gli eventi assicurati: ed, invero, ha la Corte ripetutamente osservato che, proprio attraverso detto collegamento, si realizza un fenomeno, per cosi' dire, pubblicistico di retribuzione differita, piu' coerente, rispetto all'antico sistema, al precetto costituzionale che impone "la proporzionalita' del compenso dovuto al lavoratore alla qualita' e quantita' del lavoro svolto" (cfr. in tal senso, sentenze nn. 124 e 128 del 1988; 19/1970; 57/1973; 51/1976; 142/1980; 176/1975; 275/1976). Ma, a prescindere da ogni piu' analitico esame al riguardo, quel che preme rilevare e' come, per questa via, la Corte costituzionale abbia disatteso la concezione limitativa della prestazione previdenziale come mero mezzo di sussistenza, per arricchirla di tutti quegli elementi significativi desumibili dall'art. 36 della Costituzione. Rimangono certamente intatti i profili propriamente assicurativi che si muovono nell'orbita dell'art. 38 della Costituzione, ma il collegamento di quella prestazione con la retribuzione segna anche il punto di incontro fra questo precetto e l'art. 36 della Costituzione, rinvenendosi cosi' lo strumento di identificazione della partecipazione giudiziale adeguata. Il momento piu' significativo di emersione di questa ricostruzione - poi ribadita, come si e' visto, anche dalla piu' recente giurisprudenza - sembra potersi cogliere nella sentenza n. 26/1980 con la quale e' stato chiaramente assente che dai parametri di cui agli articoli 36 e 38 della Costituzione scaturisce "una particolare protezione del lavoratore, nel senso che il suo trattamento di quiescenza, al pari della retribuzione in costanza del servizio, della quale costituisce sostanzialmente un prolungamento a fini prudenziali, deve essere proporzionato alla qualita' del lavoro prestato e deve, in ogni caso, assicurare al lavoratore medesimo ed alla sua famiglia i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita per un'esistenza libera e dignitosa: proporzionalita' ed adeguatezza che non debbano sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, ma vanno costantemente assicurate anche nel proseguo, in relazione ai mutamenti dei poteri di acquisto della moneta". L'insegnamento che se ne trae non si presta ad equivoci, non solo la difesa del potere di acquisto risponde ad un'ingerenza che accomuna il titolare di crediti per prestazioni previdenziali ed il titolare di crediti di lavoro - onde non puo' omettersi di raccogliere ancora, ad ulteriore conferma di quanto sopra osservato, il monito all'assicurazione di un'effettiva parita' di trattamento in parte qua -, ma la garanzia di siffatta difesa va ricercata ed individuata appunto nell'art. 36 della Costituzione, che non e', quindi, precetto circoscritto esclusivamente alla durata della vita lavorativa ed alle implicazioni economiche di una occupazione in atto, ma copre anche i profili previdenziali della prestazione di lavoro, con specifico riguardo al problema dell'adeguatezza dei relativi trattamenti e della conservazione nel tempo della medesima. Ed allora, posto che l'art. 429, terzo comma del codice di procedura civile, costituisce strumento di attivazione dell'art. 36 della Costituzione (v. Corte costituzionale n. 204/1989 citato), non puo' non influirne che, relativamente ai crediti i quali per loro natura, restano assoggettati alla particolare protezione di tale precetto, l'effettiva difesa del potere di acquisto del creditore rispetto al fenomeno della svalutazione appare coerente col precetto medesimo allorche' venga realizzata con la tecnica propria dei crediti di valore, che porta non solo a commisurare l'entita' della prestazione dovuta ai nuovi valori della moneta, ma altresi' a compensare il pregiudizio subito per la mancata disponibilita' (fin dal giorno della maturazione del diritto) della somma espressa in tali valori. Solo in tal modo la conseguenza del ritardo nell'adempimento vengono compiutamente rimosse, assicurandosi la concreta possibilita' che un determinato livello di trattamento economico - al quale cosi' il lavoratore come il creditore di prestazioni previdenziali hanno diritto per essere lo stesso, in un dato momento, il piu' prossimo, in vista della conciliazione di contrapposti interessi (per quanti piu' propriamente concerne i rapporti di lavoro in atto) o del rinvenimento di un punto di equilibrio fra le esigenze individuali e quelle collettive (con precipuo riguardo all'opportunita' del sistema di sicurezza sociale), al, modello imposto dalla norma costituzionale - non abbia a subire l'effetto comprensivo di fattori estranei alla logica di tali equilibri e nondimeno idonei ad allontanarlo da siffatto modello. Ne' puo' omettersi di rilevare che la necessita' di un'effettiva compiutezza delle tecniche di rimozione del pregiudizio connesso alla svalutazione si apprezza in modo particolarmente pressante proprio in relazione alle prestazioni previdenziali e' nei livelli, nel contingente quadro delle compatibilita' finanziarie, conseguono ad una valutazione del legislatore, che, pur dovendosi preservare, nel rispetto della discrezionalita' che a questi in materia compete, come la piu' idonea ed assicurare il conseguimento degli obiettivi imposti dalla norma primaria, certamente rinviene il suddetto punto di equilibrio in posizione piu' prossima alla salvaguardia di elementari esigenze di vita (basti pensare soltanto ai trattamenti minimi di pensione) che non dell'esistenza "libera e dignitosa" e percio' in posizione intrinsecamente precaria e piu' esposta ai rischi di fattori perturbanti, del tipo ricordato, la cui inefficenza, sebbene attinente alla patologia del sistema e, quindi, estranea, per definizione, al menzionato quadro di riferimento, finisce, poi, per incidere sull'esito di valutazioni compiute dal legislatore stesso alla stregua di quest'ultimo. 5. - Non dissimili considerazioni, atteso il gia' segnalato collegamento che, in parte qua, deve porsi fra l'art. 36 e l'art. 38 della Costituzione, inducono a ritenere che la denegata appicabilita' dell'art. 429, terzo comma, del codice di procedura civile, ai crediti per prestazioni previdenziali vulneri anche il precetto di cui al terzo comma della seconda di dette norme. Assunto, invero, un determinato trattamento previdenziale come quello che, in dato momento, il legislatore ha reputato il piu' idoneo ad assicurare all'interessato mezzi adeguati alle esigenze di vita e ritenuto che, coerentemente con la sua peculiare natura, tale trattamento va assicurato in termini reali, non diversamente dalla prestazione oggetto di obbligazioni di valore, e' conseguenziale il rilievo che la negazione al relativo credito della piu' incisiva (perche', attraverso il cumulo della rivalutazione e degli interessi decorrenti dal di' della maturazione del diritto, consegue l'effetto sia di compensare il creditore del pregiudizio subito a causa della mancata tempestiva disponibilita' della somma dovutagli sia di assicurare la commisurazione di questa ai nuovi valori monetari) protezione apprestata dal diritto vivente ai creditori di prestazioni siffatte si risolva in una compressione verso il basso del livello del trattamento stesso, cosi' allontanandolo da quel punto in cui, per effetto della suddetta valutazione legislativa, poteva ritenersi sussistente la sua capacita' di realizzare il cennato fine costituzionalmente garantito.