LA CORTE DI CASSAZIONE
   Ha   pronunciato   la   seguente  ordinanza  sul  ricorso  proposto
 dall'Istituto Nazionale  della  Previdenza  Sociale  I.N.P.S.,  -  in
 persona del presidente pro-tempore elettivamente domiciliato in Roma,
 via a della Frezza,  17,  presso  gli  avv.ti  Aldo  Catalano,  Luigi
 Maresca  ed  Antonino  Angelo che lo rappresentano e difendono giusta
 procura speciale in calce  al  ricorso,  ricorrente,  contro  Martini
 Elisa,  intimata,  per l'annullamento della sentenza del Tribunale di
 Firenze in data 2 maggio  1988  dep.  il  18  maggio  1988  (r.g.  n.
 435/1987);
    Udita - nella pubblica udienza tenutasi il giorno 17 novembre 1989
 - la relazione della causa svolta dal cons. rel. dott. Evangelista;
    Udito l'avv. Catalano;
    Udito  il  pubblico  ministero  nella persona del sost. proc. gen.
 dott. Giovanni Gazzara che ha concluso per il rigetto del ricorso.
                           RITENUTO IN FATTO
    Il  pretore  di  Firenze  con  sentenza  del  21  settembre  1987,
 condannava, l'I.N.P.S.  a  corrispondere  a  Martini  Elsa  l'assegno
 ordinario  di  invalidita'  con decorrenza del 1› febbraio 1986 e con
 gli interessi legali e la rivalutazione monetaria secondo gli  indici
 ISTAT.
    Avverso  tale sentenza proponeva appello l'I.N.P.S., limitatamente
 al capo concernente la condanna agli interessi e alla  rivalutazione,
 ma  l'adito  Tribunale  di Firenze rigettava il gravame. Rilevava, in
 particolare, a tal fine che, dopo la sentenza n. 408/1988 della Corte
 costituzionale,  dovevano ritenersi venute meno le ragioni preclusive
 dell'automatica   rivalutazione   dei   crediti    per    prestazioni
 previdenziali,  dovendosi,  di conseguenza anche ad essi applicare le
 statuizioni di cui all'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ.
    Ricorreva  per cassazione l'I.N.P.S. lamentando violazione e falsa
 applicazione di detta norma altre che insufficiente e  contradditoria
 motivazione su punti decisivi della controversia.
                           OSSERVA IN DIRITTO
    1.  -  Deduce il ricorrente che l'impugnata sentenza del tribunale
 di Firenze e' censurabile per aver fatto applicazione,  in  contrasto
 con  l'orientamento  giurisprudenziale  assolutamente consolidato sul
 punto del disposto dell'art. 429, terzo comma,  cod.  proc.  civ.  al
 caso  di ritardo nell'adempimento di obbligazioni previdenziali, come
 quella di specie, concernente l'erogazione dell'assegno ordinario  di
 invalidita'.
    Tale  essendo l'oggetto della censura, reputa la Corte rilevante e
 non   manifestamente   infondata   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale della menzionata norma (nel testo di cui alla legge n.
 533/1973), in riferimento agli artt. 3, 36 e 38  della  Costituzione,
 nella  parte  in  cui non consente la sua applicazione ai crediti per
 prestazioni previdenziali.
    2.  -  Essendo  ormai  saldamente acquisito il principio che vuole
 sottoposto dalla disciplina dell'art. 1224, secondo comma, cod.  civ.
 e  non  dall'art.  429,  terzo  comma  cod.  proc.  civ.  il danno da
 svalutazione per  crediti  previdenziali  tardivamente  adempiuti  la
 rilevanza  della  questione  si  palesa  evidente,  per  il  nesso di
 pregiudizialita' rispetto al presente giudizio:  l'esito  di  questo,
 invero,   dipende  dalla  soluzione  di  detta  questione,  dovendosi
 procedere alla cassazione dell'impugnata sentenza -  in  adesione  al
 ricordato  jus  receptum,  dal  quale non ritiene la Corte di potersi
 discostare - ovvero, alla reiezione del  ricorso  a  seconda  che  la
 questione medesima venga dichiarata non fondata o, all'apposto il suo
 esame   si   concluda   con   la   declaratoria   dell'illegittimita'
 costituzionale della norma nella parte censurata.
    3.  - Nel merito, la questione non appare manifestamente infondata
 per le ragioni che seguono.
    3.1.  -  La  sancita esclusione dell'applicabilita' dell'art. 429,
 terzo comma, del cod. proc. civ. al caso di ritardo nello adempimento
 di  crediti  per  prestazioni  previdenziali  sembra,  in primo luogo
 vulnerare il  principio  di  eguaglianza  di  cui  all'art.  3  della
 Costituzione.
    3.1.1.  -  Giova  al  riguardo  premettere,  atteso il rapporto di
 specialita' che intercorre fra l'art. 1224 del  codice  civile  e  la
 sopra  citata  norma,  che  la presente censura non viene prospettata
 assumendosi  quest'ultima  come  mero   tertium   comparationis   per
 pervenire   al   risultato   (inammissibile   in   sede  di  verifica
 dell'osservanza del menzionato principio: v. Corte costituzionale nn.
 46/1983;  2/1982; 80/1972) di sottrarre la fattispecie judiconda alla
 disciplina generale dettata con la prima. La censura  ricade  invece,
 sulla  stessa norma derogatoria, cosi' recependosi l'insegnamento (v.
 Corte costituzionale n.  80/1969  e  per  puntuali  applicazioni  del
 principio  ivi  sanciti n. 117/1975) secondo il quale il principio di
 eguaglianza richiede  che  la  legge  singolare  corrisponda  ad  una
 obiettiva  diversita'  della  situazione  considerata  -  rispetto  a
 residue situazioni fra loro omogenee -, la quale giustifichi  percio'
 razionalmente   la  disciplina  differenziata  per  questa  adattata.
 Occorre cioe' che la ratio della legge si esaurisca nella fattispecie
 da  essa  disciplinata  e  non  si  estenda  a  situazioni concrete o
 ipotizzabili, le quali, pur presentando elementi comuni con  l'altra,
 se  non  diversificano  in  modo  tale  da non rendere giustificabile
 l'applicazione anche ad esse della normativa  disposta  per  il  caso
 singolo. Ove queste condizioni non esistano, vale a dire ove la ratio
 della legge  derogatrice  del  regime  comune  sia  tale  da  coprire
 situazioni  omogenee  rispetto a quella singolarmente considerata, si
 avra'  violazione   del   principio   di   eguaglianza   perche'   si
 determineranno ingiustificate situazioni di vantaggio o di svantaggio
 per i soggetti del rapporto regolato da detta legge, in relazione  ai
 soggetti  della serie di rapporti omogenei che ne sono stati esclusi.
 Solo in  questi  limiti  e  nella  discrezionalita'  del  legislatore
 ordinario  stabilire  l'ambito della disciplina normativa da adottare
 non rientra nel giudizio di  costituzionalita'  accertare  che  detti
 limiti siano stati rispettati e precipuamente accertare che non vi e'
 contrasto fra la ratio della legge e la sua limitazione  ad  un  caso
 concreto  non  giustificata  da  una  obiettiva  diversita'  di  esso
 rispetto ad altri casi a cui quella disciplina potrebbe estendersi.
    3.1.2.   -  Orbene,  la  Corte  costituzionale  e'  reiteratamente
 intervenuta sulla vexata quaestio dell'esclusione dell'applicabilita'
 dell'art.  429,  terzo  comma,  del  cod.  proc.  civ. ai crediti per
 prestazioni  previdenziali,   affermandone   e   poi,   piu'   volte,
 ribadendone  la legittimita' costituzionale: e, tuttavia, da un lato,
 in una sola sentenza (n.  162/1977)  risulta  compiuta  una  puntuale
 ricognizione  dei tratti differenziali del credito di lavoro rispetto
 a  quello  previdenziale,  vale   a   dire   della   sussistenza   di
 quell'eterogeneita' delle situazioni poste a raffronto che, alla luce
 del sopra  ricordato  principio,  apparve  allora  fondare  il  retto
 esercizio della discrezionalita' legislativa nel sancire l'esclusione
 de qua; mentre, dall'altro lato, tale ricognizione sembra per  larghi
 tratti  superata  sia  dalla  giurisprudenza susseguente della stessa
 Corte costituzionale,  sia  da  sopravvenuti  mutamenti  del  tessuto
 interpretativo  del  vigente  ordinamento  e,  quindi,  del  "diritto
 vivente" che ne discende.
    La   piu'  remota  decisione  (n.  1621/1977)  riassumeva  in  tre
 considerazioni   le   ragioni    della    riscontrata    legittimita'
 dell'esclusione in questione:
       a)  il  credito  previdenziale  "anche  se  puo'  avere  il suo
 antecedente  in  un  rapporto  di  lavoro  dipendente,  ha,  rispetto
 all'Istituto    erogante,    caratteristica    autonoma   di   natura
 pubblicistica";
       b)  "il fatto che le funzioni non vengono rapidamente liquidate
 (cio'  che  deve  giudicarsi  deplorevole  e  degno   della   massima
 attenzione  del legislatore e dell'autorita' amministrativa) non puo'
 essere certamente scritto  al  proposito  degli  utenti  debitori  di
 lucrare sulla probabile svalutazione monetaria";
       c)  "poiche'  il ritardo nel pagamento in un certo senso non e'
 volontario  (ma  sostanzialmente   derivante   dalla   procedura   di
 liquidazione  e da complicazioni burocratiche) e' da escludere che la
 sanzione della rivalutazione avrebbe effetto di remora  e  per  cosi'
 che,  dissuasiva  come  nel  caso dei crediti dei lavoratori verso il
 datore di lavoro privato".
    Peraltro,  successivamente  a  tale  decisione,  gli  orientamenti
 ermeneutici intorno all'art. 1224 del cod. civ. - nel cui  ambito  di
 operativita'  l'eslusione  dell'applicabilita'  dell'art.  429, terzo
 comma, del cod.  proc.  civ.  riconduceva  i  crediti  previdenziali,
 soggetti, per la loro natura pecuniaria, al principio nominalistico -
 si venivano significatamente evolvendo, in guisa tale da  determinare
 un  sempre  piu' compiuto allinamento della regolamentazione di detti
 crediti,   sotto   il   profilo   delle   conseguenze   del   ritardo
 nell'adempimento,  a  quella  dei  crediti  di lavoro, non altrimenti
 giustificabile che per l'avvertita esigenza d'una sostanziale parita'
 di  trattamento  rispetto  a  situazioni  non  dissimili; cosi' come,
 parallelamente,  si  venivano  precisando  l'esatto   significato   e
 l'effettiva portata dello stesso art. 429.
    Cominciando da quest'ultimo punto, va innanzitutto sottolineato il
 progressivo consolidamento del principio per cui la tecnica adoperata
 dal  legislatore del 1973 nel dettare la norma speciale e' consistita
 nell'attrarre  i  momenti  della   maturazione   del   credito,   sua
 svalutazione  e liquidazione in un unica fattispecie complessa, entro
 la quale non v'ha piu' posto per la mora, risultando  l'inadempimento
 equiparato  al fatto illecito in relazione del regime risarcitorio di
 valore delle obbligazioni.
    Orbene,  quand'anche  voglia escludersi che il credito retributivo
 siasi definitivamente trasformato da credito di valuta in credito  di
 valore   -   cio'   che   pure  e'  stato  autorevolmente  sostenuto,
 argomentandosi dalla nozione di retribuzione in senso sociale,  quale
 risultante  dal  precetto  costituzionale  e  che  si  e' inverata in
 particolari strumenti e meccanismi, come quello  della  scala  mobile
 dei  salari  e quello offerto appunto dallo stesso art. 429 nel testo
 novellato, cosi' da far ritenere  ormai  attivato  il  passaggio  del
 salario nominale al salario reale -, resta, nondimeno jui receptum un
 interpretazione della teste citata norma che ne valorizza l'idoneita'
 da  imporsi  una tecnica liquidatoria affine a quella corrente per le
 obbligazioni di valore.
    Per il ritardo nell'adempimento di una obbligazione di tal tipo la
 maggior somma dovuta per effetto  della  svalutazione  monetaria  non
 rappresenta  il  maggior  danno, previsto dal secondo comma dell'art.
 1224 del cod. civ. in ordine alle sole prestazioni  (originariamente)
 pecuniarie, ma la commisurazione del danno originario ai nuovi valori
 della moneta: e  poiche'  la  maggiore  quantita'  monetaria  vale  a
 risarcire  il  primitivo danno, e cioe' ad assicurare al creditore il
 valore intrinseco  della  prestazione  mancata,  non  puo'  ritenersi
 opponibile  dal  debitore  la  non  prevedibilita' della svalutazione
 monetaria (cfr. ex plurinus, Cass. 2850 del 1982).
    In  buona  sostanza,  allorche'  la  liquidazione  del danno venga
 adeguata al mutato valore  della  moneta  per  rendere  effettiva  la
 reintegrazione   patrimoniale   del  danneggiato,  la  maggior  somma
 attribuita non rappresenta il risarcimento di un  maggior  danno,  ma
 soltanto   una  diversa  espressione  numerica  del  danno  medesimo,
 ritenendo inalterata l'entita' iniziale del risarcimento:  operazione
 nella  quale  non trovano collocazione ne' la valutazione della mora,
 ne'  quella  di  atteggiamenti  soggettivi  del  debitore,   ne'   la
 necessita'  della  prova  del  concreto  pregiudizio sofferto a causa
 dell'intervenuto mutamento dei valori monetari.
    Inoltre,  attraverso  la  liquidazione  in  tal guisa eseguita non
 viene determinata che  la  sola  entita'  del  danno  originariamente
 causato,  mentre  occorre altresi' ricompensare il pregiudizio subito
 per la mancata tempestiva disponibilita' della somma di  risarcimento
 sicche'  a  questa  funzione,  diversa  ed  autonoma,  soccorrano gli
 "interessi compensativi" che nascono dal  medesimo  fatto  generatore
 dell'obbligazione risarcitoria e percio' naturalmente si cumulano con
 la rivalutazione (v. Cass. 725/1980; 5333/1979, fra le numerose altre
 conformi)  -  Ed  un  simile  meccanismo - che e' centrano al sistema
 delle obbligazioni pecuniarie, nelle  quali  il  deprezzamento  della
 moneta  durante la mora non incide sull'entita' della somma di denaro
 originariamente dovuta, ostandovi il principio del  valore  nominale,
 ma rileva unicamente ed in via indiretta sub specie damni, sicche' le
 rivalutazioni del credito attraverso l'eventuale  applicazione  degli
 indici  ISTAT di variazione dei prezzi costituisce null'altro che una
 tecnica semplificata di accertamento  e  liquidazione  del  danno  da
 ritardo  (v.  Cass.  2368/1986; 3776/1979), operata la quale non v'e'
 piu' spazio per  la  comprensione  di  interessi  in  funzione,  essi
 stessi, risarcitoria, come quelli suddetti, essendo invece consentita
 la sola liquidazione maggiorata di interessi  decorrenti  dal  giorno
 del  suo  compimento, nel quale cioe' detta obbligazione risarcitoria
 (di  valore)  viene  concretamente  quantificata,  trasformandosi  in
 debito  di  valuta, e' quello proprio anche dell'art. 429 citato, che
 comporta, prescindendo  sia  dalla  mora  che  dalla  liquidita'  del
 credito,  corresponsione  di  interessi dal di' della motivazione del
 diritto  oltre  che  rivalutazione  delle  somme  dovute  (v.   cass.
 376/1988;  3262/1985; 8155/1987; 2152/1982; 4838/1978; 2648/1976, fra
 le numerose altre conformi).
    Cosi'  attribuito  il  risultato  dell'insensibilita' del fenomeno
 rivalutativo del credito da lavoro all'atteggiamento  subiettivo  del
 debitore,  se  ne  deve  dedurre  che il diritto vivente, quale si e'
 venuto precisando dopo la  sentenza  della  Corte  costituzionale  n.
 162/1977,  configura  il  fenomeno  stesso  in  termini  che  rendono
 inattuali  l'allora  compiuta  ricognizione  -  per   vasti   aspetti
 affidata,   come   si   e'   visto,  al  rilievo  da  riconoscere  ad
 atteggiamenti siffatti - dai  motivi  di  razionalita'  della  scelta
 compiuta  dal  legislatore  nel  delineare  l'ambito  di  quantivita'
 dell'art. 429 della Costituzione.
    Rileva,  invece,  precipuamente,  alla stregua di tale diritto, la
 natura del credito, elevata dalla sua funzione: la conduzione di mero
 consumatore  propria  del  creditore induce a ritenere che i proventi
 del lavoro siano semplicemente dichiarati alle normali,  personali  e
 familiari,  esigenze  di  vita,  anche  le  conseguenze  del  ritardo
 nell'adempiment o, obiettivamente valutate, si commisurano al maggior
 costo (in espressione monetaria) dei beni di consumo, il cui acquisto
 al tempo di scadenza dell'obbligazione ugualmente  avrebbe  sottratto
 la  somma  agli  effetti  della  inflazione  -  Tale  sembra,  ormai,
 nell'attuale  prospettiva  ricostruttiva,  la  ratio  dell'art.   429
 citato, rispetto alla quale la stessa funzione dissuasiva della norma
 (in ordine a comportamenti speculativi ex parte solventis) si colloca
 nel   novero   delle   risultanze   effettuali  e  percio'  prive  di
 quell'autonomo significato qualificante, alla  cui  stregua  soltanto
 potrebbe riconoscersi la ragionevolezza della scelta suddetta.
    Cio' che importa, assumendo, cosi', rilevanza individuatrice della
 ratio legis, e' la necessita' di difendere il  potere  d'acquisto  di
 chi  deve  utilizzare il reddito di cui e' creditore per procacciarsi
 quanto occorre ad  assicurare,  a  lui  ed  alla  sua  famiglia,  una
 esistenza  libera  e dignitosa: ed in tal senso e per questo fine, di
 rilievo anche costituzionale (art. 36 della Costituzione) la norma e'
 strutturata;  e  che, poi, tale struttura consegua anche il risultato
 di  porre  remore  ad  ingiustificati  ritardi  nell'adempimento   e'
 circostanza  che  attiene alle possibili implicazioni dell'apprestato
 regolamento, ma non idonea a spiegarne la radice  razionale,  proprio
 perche'  detta  difesa  e'  operativa in favore del creditore anche a
 prescindere, come si e'  sopra  ricordato,  da  qualsiasi  colpa  nel
 ritardo della controparte.
    In  questo  senso,  del  resto  e'  venuta  evolvendosi  anche  la
 giurisprudenza costituzionale.
    Mette  conto,  al riguardo, rilevare come l'argomento, che (con la
 sentenza  n.  162/1977)  faceva  leva  su  un'asserita  mancanza   di
 giustificazione  per ipotizzare una utile esplicazione della funzione
 dissuasiva nei confronti di enti  pubblici  che  non  perseguono,  in
 quanto  tali,  fini di arricchimento nel ritardare l'adempimento, sia
 stato sostanzialmente trascurato allorche' si e'  giudicato  conforme
 alla   Costituzione   (con  la  conseguenza  dell'infondatezza  della
 relativa  questione)   il   "diretto   vivente"   che   assicura   la
 rivalutazione automatica, con aggiunta degli interessi, per i crediti
 dei pubblici dipendenti, ivi compresi i dipendenti dello Stato (cosi'
 espressamente, Corte costituzionale sentenza n. 52/1986).
   Ma  quel  che massimamente preme rilevare, quale indizio ancor piu'
 significativo dell'abbandono dell'ottica propria  della  sentenza  n.
 162/1977,   e'  che  la  Corte,  superando  un  precedente  contrario
 orientamento (sent.  n.  139/1981),  ha  ritenuto  costituzionalmente
 illegittima  (v.  sentenza  nn.  300/1986  e  204/1989)  le norme che
 precludevano l'operativita' dell'art. 429, terzo  comma,  del  c.p.c.
 per  il  periodo successivo all'apertura di procedure concorsuali ( e
 fino al momento in cui lo stato passivo diviene definitivo),  durante
 il  quale  al  debitore  e'  de jure sottratto il potere di procedere
 all'adempimento, per non alterare la par condicio creditorum, sicche'
 nessun  rilievo puo' riconoscersi alla ripetuta funzione dissuasiva o
 ad atteggiamenti soggettivi  del  debitore  stesso  o,  infine,  alla
 sussistenza di impedimenti che prescindono dalla sua volonta': rileva
 per contro, ed in cio' la Corte ravvisa  la  ragione  del  dichiarato
 contrasto  di dette norme con gli artt. 3 e 36 della Costituzione, la
 necessita' di dipendere, alla stregua di questi fondamentali precetti
 e nonostante il contingente involontario impedimento del debitore, il
 valore del credito di cui trattasi, in relazione alla sua natura.
    Di  particolare  importanza,  in  quest'ordine  di idee, appare il
 tessuto logico della sentenza n. 204/1989: ivi la Corte ha  ricordato
 che  il  precedente  negativo  arresto su analoga questione (sent. n.
 139/1981) era, fondamentalmente,  ispirato  alla  considerazione  per
 cui, essendo stato, in passato, individuato "il ruolo" dell'art. 429,
 terzo comma, del cod. proc. civ.  nella  "remora  da  esso  posta  al
 mancato    soddisfacimento   dei   crediti   da   lavoro   da   parte
 dell'imprenditore",  era  apparso  conseguente  ragion   d'essere   a
 siffatta  funzione  della  norma  "la' dove il soddisfacimento non e'
 piu' consentito dopo la dichiarazione di fallimento se non attraverso
 l'espletamento  della  procedura  fallimentare";  ed ha poi, rilevato
 come tale impostazione non possa non  essere  superata  allorche'  si
 riconosca  che,  fuor  d'ogni  dubbio "la svalutazione dei crediti di
 lavoro  costituisca  una  forma  di  attuazione  dell'art.  36  della
 Costituzione" ed in particolare che "essa opera non tanto come remora
 posta  all'inadempimento  dell'imprenditore,  quanto  come  strumento
 destinato  ad  assicurare  l'opportunita'  della  garanzia  apportata
 dall'art.  36  della  Costituzione  tramite  l'adeguamento  del  loro
 ammontare secondo dati criteri".
    V'e'  dunque  un'esplicita  affermazione dell'avvenuto superamento
 delle meno recenti operazioni ricognitive della ratio della norma  in
 questione  e  delle  implicazioni  che  se  erano  tratte  al fine di
 affermare la legittimita' costituzionale di talune limitazioni  poste
 alla  sua  operativita'; non meno che l'indicazione delle prospettive
 di applicazione che si dischiudono una volta asservita  quella  ratio
 al  precipuo  scopo  di tutela del livello di reddito del lavoratore,
 cosi' come impone l'assetto  propositivo  della  norma  stessa,  alla
 stregua  delle  superiori considerazioni desunte dall'attuale assetto
 della giurisprudenza ordinaria.
    Quanto  all'altro profilo evolutivo degli orientamenti ermenentici
 - concernenti le peculiari applicazioni date dall'art. 1224 del  cod.
 civ.  in  materia  di  crediti previdenziali, deve rilevarsi come sia
 venuta consolidandosi una interpretazione che, anche in tali  crediti
 ravvisa  connotati  che  li  rendano  sostanzialmente  assimilabili a
 quelli di  lavoro  e  percio'  bisognosi  di  non  minore  protezione
 rispetto al fenomeno inflattivo.
    La   Corte  Costituzionale,  con  la  sentenza  n.  408/1988,  nel
 dichiarare non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
 del  combinato disposto degli artt. 1224 cit. e 429, terzo comma, del
 cod. proc. civ., nella parte in cui - ad avviso  dei  giudici  allora
 remittenti  -  assoggettano  a diverso trattamento, in punto di onere
 della prova del  danno  da  svalutazione  monetaria,  i  crediti  per
 prestazioni previdenziali, da un lato, e quelli di lavoro dall'altro,
 ha esplicitamente riconosciuto  che,  ove  la  denunciata  disparita'
 fosse  effettivamente riscontrabile, difficilmente potrebbe risultare
 giustificata in relazione agli artt. 3 e 38  della  Costituzione  (v.
 punt.  14  del  "Considerato  in diritto"). Onde non sembra azzardato
 desumere che le ipotetiche diversita' fra le due categorie di credito
 (apparse  desimenti congiuntamente in occasione della pronuncia della
 sentenza n. 162/1977), sebbene ricordate  dalla  stessa  sentenza  n.
 408/1988  allorche'  al  detto precedente fa riuso, sono accreditate,
 nell'ottica propria della piu' recente decisione, di un  minore  peso
 specifico  che  in  passato, in quanto il riconoscimento che una loro
 astratta  idoneita'  a  legittimare  trattamenti   diversificati   e'
 contestuale   all'affermazione   della   perdita  di  tale  idoneita'
 discriminante in riferimento all'eventualita' che l'assetto normativo
 in   concreto   operante  appare  tale  da  compromettere  la  tutela
 costituzionalmente dovuta "al modesto  creditore  previdenziale"  (v.
 punto diciassette della medesima parte).
    Ed  in  effetti, la sentenza esclude la sussistenza dei profili di
 illegittimita' costituzionale  della  allora  proposta  censura,  sol
 perche'  il  vigente  sistema  legislativo  e'  suscettibile  di  una
 interpretazione che, almeno  in  parte  qua,  assunta  come  "diritto
 vivente"  raggiunge  proprio  "quegli  scopi  di  tutela"  del teste'
 menzionato creditore, perseguiti con la proposta censura.
    Scopi  apparsi  alla  Corte  insolubili  in  quanto:  a) "le somme
 percepite a titolo di prestazione previdenziale sono per loro natura,
 piu'   che   per   le  particolari  qualita'  del  singolo  creditore
 considerato, normalmente destinate alle comuni esigenze di vita ed in
 quanto   tali   sensibili  al  danno  conseguente  alla  svalutazione
 monetaria"; b) "in caso di  tardivo  pagamento  deve  provvedersi  ad
 eliminare  tale danno per quando sia impossibile allegare la prova di
 uno specifico pregiudizio"; c) si impone "una concezione della moneta
 come bene fungibile e strumento di scambio, dotata, dunque
 di  valore  nella  misura  in  cui  sia  reso  possibile al creditore
 adoperarla utilmente a tale scopo"  e  "l'assunto  conseguente  costo
 sociale della stabilita' monetaria non e' necessariamente destinato a
 passare attraverso la soluzione che sacrifichi il creditore,  cui  il
 tempestivo adempimento apporta soltanto i mezzi per vivere".
    E  si  tratta,  all'evidenza,  di scopi innegabilmente comuni alla
 tutela del titolare di crediti di lavoro, dovendosi riconoscere  alla
 stregua  delle  superiori  osservazioni  che  la ratio dell'art. 429,
 terzo comma, del cod. proc. civ. gravante  tutta  intorno  al  nucleo
 dell'ivi   parimente   riscontrata   necessita'  o  normalita'  della
 destinazione della prestazione al soddisfacimento di comuni  esigenze
 vitali,   con   le   conseguenti  implicazioni  in  tema  di  ritardo
 nell'adempimento.
    3.1.3.  -  Sintetizzando,  dunque,  e  finalizzando  il  messaggio
 precettivo ricavabile dai  ripetuti  orientamenti  giurisprudenziali,
 specialmente  costituzionali,  in  subjecta  materia, sembra a questa
 Corte di poter osservare:
       a)  la  legge  singolare (art. 429, terzo comma, del cod. proc.
 civ.) che  ha  isolato  i  crediti  di  lavoro  dagli  altri  crediti
 pecuniari   soggetti   al   generale  principio  unominalistico,  per
 attribuire loro ivi prevista protezione, in particolare  rispetto  al
 fenomeno   della   svalutazione  monetaria  verificatasi  nelle  more
 dell'adempimento trova la sua ratio nella necessita' di difendere  il
 potere  di  acquisto  del  creditore,  in considerazione della natura
 propria di detti crediti il cui oggetto e', di  norma,  destinato  al
 consumo per il soddisfacimento degli ordinari bisogni;
       b)  natura  identica  presenta  il  credito  previdenziale  del
 modesto consumatore, onde anch'esso abbisogna di analoga protezione;
       c)   la   ratio   della   legge   singolare  appare,  pertanto,
 potenzialmente estesa anche alla  situazione  del  modesto  creditore
 previdenziale  e  di  conseguenza  la  concreta  esclusione di questi
 dall'ambito obiettivo di operativita' di detta legge  e',  del  pari;
 potenzialmente  lesiva  del  principio  di  eguaglianza,  nella sopra
 riferita prospettazione, dovendosi, alla stregua dell'attuale assetto
 legislativo  formato  dall'evoluzione del "diritto vivente", ritenere
 venute meno le ragioni giustificative di siffatta esclusione;
       d)  argine  alla concreta estrinsecazione di tale potenzialita'
 lesiva e'  posto  dal  fatto  che  lo  stesso  diritto  vivente,  pur
 assegnando   il   credito   previdenziale  all'area  di  operativita'
 dell'art. 1224 del cod. civ. e non anche dell'art. 429, terzo  comma,
 del cod. proc. civ., riesce nondimeno a garantire al credito suddetto
 una tutela, in parte qua, sostanzialmente assimilabile a  quella  che
 lo jus singilare assicura la credito di lavoro.
    3.1.4.  -  Va,  peraltro, considerato che l'art. 429, terzo comma,
 del cod. proc. civ. contiene varie disposizioni rispetto  alle  quali
 deve  essere  verificata la persistenza di detta garanzia con effetti
 impeditivi  della   censura   di   violazione   dell'art.   3   della
 Costituzione.  Fra  queste, per quanto qui direttamente interessa, vi
 sono le disposizioni relative rispettivamente  all'automatismo  della
 rivalutazione ed alla quantificazione della prestazione dovuta per il
 ritorno del danno determinato dalla perdita di valore  della  moneta.
 Una  verifica  in ordine alla prima e' stata appunto effettuata dalla
 Corte  Costituzionale   con   la   citata   sentenza   n.   408/1988,
 riconoscendosi che il sistema di prevenzioni utilizzabile in giudizio
 dal  modesto  creditore  previdenziale,  che  lamenti  il  danno   di
 svalutazione  monetaria  connesso  al  ritardo nell'adempimento della
 prestazione,  e  la  possibilita'  di  utilizzazione,  da  parte  del
 giudice,  ai  fini della relativa liquidazione, dei parametri forniti
 dagli indici ufficiali dei prezzi  al  consumo  per  le  famiglie  di
 operai  e  impiegati,  assicurano  al detto creditore una tutela, per
 tale parte, non desumibile  da  quella  che  gli  offrirebbe  diretta
 applicabilita' dell'art. 429 della Costituzione.
    A  diverse  conclusioni  deve,  invece,  pervenirsi ove ad analoga
 verifica si proceda (cio' che non rientrava nei limiti dell'incidente
 di  costituzionalita' esaminato con la ripetuta sentenza n. 408/1988)
 in  riferimento  alla  seconda  delle  mentovate  disposizioni,   che
 comporta,  come  dinnanzi  ricordato  il cumulo della rivalutazione e
 degli interessi sulla somma rivalutata dal di della  maturazione  del
 diritto.
    Anche  a  questo  fine  devesi  dar conto dei termini in cui si e'
 venuto evolvendo il "diritto vivente".
    Con  sentenza  n.  3661/1981  questa  Corte  ebbe  a  formulare il
 principio per cui se nelle  obbligazioni  pecuniarie,  gli  interessi
 legali,  che,  in base all'art. 1224, primo comma, del codice civile,
 decorrono di diritto a carico del debitore in mora, rappresentano  il
 lucro   cessante   presunto   che   il   creditore  avrebbe  ricavato
 dall'impiego della  somma  dovutagli  e  vanno  tenuti  distinti  dal
 risarcimento  del  "danno  maggiore"  che  puo' spettare al creditore
 stesso ai sensi del capoverso della  norma  citata,  in  quanto  tale
 risarcimento non assorbe detti interessi bensi' si aggiunge ad essi".
 La medesima  regola  del  "cumulo"  venne  poi  affermata  (sent.  n.
 1607/1987),  esattamente  in tema di credito previdenziale pecuniario
 di non rilevante  importo,  e  ribadita,  ancora  in  riferimento  al
 creditore   pecuniario   cui   competi   la   qualifica  di  "modesto
 consumatore", dalle sentenze nn. 5135,  5136  e  5137  del  1988.  Ma
 questa   linea  interpretativa,  chiaramente  mossa  da  esigenze  di
 razionalizzazione del sistema normativo, ravvisabili  nell'avvertita'
 necessita'   di   assicurare   al  creditore  previdenziale,  modesto
 consumatore, una tutela non dissimile da quella fruita  dal  titolare
 di  crediti  di lavoro, non ha ricevuto l'avallo delle s.v. di questa
 Corte, le quali (v. sent. n. 5294/1989) hanno  negato  che  il  testo
 dell'art.  1224 codice civile e la sua ratro consentano un'operazione
 armeneutica intesa a scomporre il  dettato  in  due  distinti  nuclei
 normativi,  l'uno  dettato  per  la tutela risarcitoria dei creditori
 pecuniari che avrebbero impiegato  il  denaro  in  modo  vantaggioso,
 l'altro  per  ovviare  al pregiudizio di chi non ha potuto acquistare
 tempestivamente beni e servizi per  gli  ordinari  bisogni  di  vita,
 conseguendo percio' il diritto al cumulo di interessi e rivalutazione
 nei modi suddetti.
    Le  s.v.  hanno percio' ritenuto di dovere ribadire la consolidata
 giurisprudenza  (v.  sentenze  nn.  300/1977;  1377/1981;  1647/1986;
 2834/1986;  2368/1986; 3004/1986; 2545/1987; 1171/1988; 260/1988, fra
 le numerose altre conformi) sull'inammissibilita'  del  cumulo  della
 rivalutazione  con  gli  interessi  nella  fattispecie  legale di cui
 all'art. 1224 del codice  civile;  e,  con  specifico  riguardo  alla
 posizione del creditore previdenziale, hanno conclusivamente rilevato
 che la sua classificazione nella categoria di  "modesti  consumatori"
 ha    una    rilevanza,    ai   fini   della   disciplina   giuridica
 dell'inadempimento, esclusivamente  probatoria  (in  quanto  consente
 l'utilizzazione  delle gia' ricordate presunzioni di danno, comparate
 alla qualita' personali ed alla  natura  del  credito),  mentre  deve
 escludersi; in difetto di esplicita e specifica previsione normativa,
 l'attribuzione di interessi legali (di qualsiasi natura), in aggiunta
 al  risarcimento integrale del danno rappresentato dall'importo della
 "rivalutazione", con un  procedimento  sostanzialmente  mutato  dalla
 disciplina di crediti di valore o da quella dei crediti di lavoro.
    Ed  allora,  appare  chiaro  che  ne  risulta  compromessa  quella
 situazione di equilibrio in presenza  della  quale,  per  le  ragioni
 sopra  esposte, l'esclusione del creditore previdenziale dalla tutela
 ex art. 429, terzo comma,  del  codice  di  procedura  civile  poteva
 ritenersi   non  lesiva  del  principio  di  eguaglianza.  La  tutela
 complessivamente apportata, in favore del creditore previdenziale che
 sia  modesto consumatore, dalla norma generale finisce per essere ben
 meno vantaggiosa  di  quella  attribuita  dalla  norma  singolare  al
 titolare  di  crediti  di  lavoro:  infatti, come e' stato largamente
 notato, con un'inflazione che si e' ormai collocata  intorno  al  5%,
 colui  che,  si  presume, impieghi il denaro per la soddisfazione dei
 bisogni familiari e personali e che cosi' consumi -  senza  risparmio
 possibile   in   investimenti,  il  suo  reddito  previdenziale,  non
 diversamente da chi trae dal lavoro i  mezzi  di  sussistenza,  nulla
 potrebbe  pretendere  oltre  l'importo degli interessi legali, a meno
 che non fornisca una - problematica - prova di un diverso impiego del
 denaro.
    Si  verifica dunque esattamente la situazione lesiva del principio
 di eguaglianza potenzialmente insita nell'esclusione in  questione  e
 concretamente  determinata  dalla rottura del suddetto equilibrio: e'
 cioe' la norma singolare che affronta specifi rimedi di  salvaguardia
 del  particolare  creditore  che  destini  ad alimonia la prestazione
 oggetto del credito e di  ossicurazione  del  suo  potere  d'acquisto
 isola  poi  arbitrariamente  una  sola  categoria  di  soggetti, come
 destinatari delle relative disposizioni, trascurando l'altra che  pur
 versa in una condizione sostanzialmente identica (se non deteriore, e
 percio' maggiormente bisognosa di quei  rimedi,  essendo  nozioni  di
 comune   esperienza   che,  di  norma,  quanti  vivono  potendo  fare
 affidamento soltanto sulle prestazioni previdenziali loro dovute  ben
 difficilmente  attingano livelli di reddito paragonabili a quelli che
 puo' offrire l'impiego di energie lavorative). E del  resto,  che  la
 ratio  dell'art.  429  della  Costituzione  (a prescindere dal tenore
 letterale e dalla collocazione della norma  che  hanno  fondato  quel
 "diritto  vivente"  consistente  nell'interpretazione restrittiva) si
 estenda  potenzialmente  fino  a  ricomprendere  la  condizione   dei
 creditori di prestazioni previdenziali non e' sfuggito ai canditoris,
 che hanno poi emesso di trarne  le  dovute  conseguenze  in  sede  di
 stesura  del  tessuto  disperitivo  concretamente  adottato:  non e',
 invero  senza  significato  che  lo  stesso  autore  dell'emendamento
 (Coccia)  da  cui  trae  origine  la  parte  della  citata  norma qui
 rilevante abbia avvertito la necessita'  di  accuminare  in  un'unica
 menzione il credito di lavoro e quello previdenziale allorche', nella
 sua  dichiarazione  di  voto   sul   complesso   del   provvedimento,
 pronunciata nella seduta del 23 luglio 1971 delle commissioni riunite
 giustizia e lavoro  della  Camera  (V  Legislatura)  ha  sottolineato
 l'importanza  della  disposizione  come  quella "che introduce per la
 prima volta nel nostro sistema il principio, in questo campo, che  il
 salario  o  la  pensione  costituiscono  credito  di  valore e non di
 valuta".
    4.  -  La  teste' rilevata disparita' di trattamento, con la minor
 tutela che ne consegue nei confronti di quel modesto  creditore  che,
 di  norma,  e' l'aspirante al sollecito adempimento delle prestazioni
 previdenziali  dovutegli,  determina  poi  un  assetto  normativo  in
 contrasto  anche  con  l'art. 36 della Costituzione, sotto il profilo
 dell'insufficiente  garanzia  di  "adeguatezza"   delle   prestazioni
 stesse.
    Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale chiaramente emerge
 l'orientamento  inteso  alla   ricostruzione   del   trattamento   di
 quiescenza  in  genere,  ma  anche  della  pensione, in ispecie, come
 retribuzione differita. Le pronunzie al riguardo  sono  numerosissime
 (v.  sentenze  nn.  3/1966;  78/1967;  75/1968;  112/1968;  140/1971;
 52/1972; 85/1972; 203/1972; 204/1972; 184/1973;  188/1973;  191/1974;
 24/1975;  83/1979, ex plurinus e, sia pure attraverso varie sfumature
 di significato, insistono sul concetto, specialmente  in  riferimento
 all'evoluzione  dell'ordinamento previdenziale che, se, anteriormente
 al passaggio dal sistema contributivo di liquidazione delle  pensioni
 a    quello    retributivo,    induceva   ad   accordare   prevalenza
 all'assegnazione  di  retribuzione  differita  ancorata  alla   massa
 contributiva accantonata ed al suo rendimento, successivamente a tale
 momento  fa  acquisire  rilievo  determinante  al  collegamento   fra
 pensione  e  retribuzione  ed  alla  configurazione dell'una come una
 sorta di prosecuzione  dell'altra  per  il  tempo  in  cui  si  siano
 prodotti gli eventi assicurati: ed, invero, ha la Corte ripetutamente
 osservato che, proprio attraverso detto collegamento, si realizza  un
 fenomeno,  per  cosi'  dire, pubblicistico di retribuzione differita,
 piu'   coerente,   rispetto   all'antico   sistema,    al    precetto
 costituzionale che impone "la proporzionalita' del compenso dovuto al
 lavoratore alla qualita' e quantita' del lavoro svolto" (cfr. in  tal
 senso,  sentenze  nn.  124 e 128 del 1988; 19/1970; 57/1973; 51/1976;
 142/1980; 176/1975; 275/1976).
    Ma,  a  prescindere da ogni piu' analitico esame al riguardo, quel
 che preme rilevare e' come, per questa via, la  Corte  costituzionale
 abbia   disatteso   la   concezione   limitativa   della  prestazione
 previdenziale come mero mezzo  di  sussistenza,  per  arricchirla  di
 tutti  quegli  elementi  significativi  desumibili dall'art. 36 della
 Costituzione.
    Rimangono  certamente  intatti i profili propriamente assicurativi
 che si muovono nell'orbita dell'art. 38  della  Costituzione,  ma  il
 collegamento di quella prestazione con la retribuzione segna anche il
 punto di incontro fra questo precetto e l'art. 36 della Costituzione,
 rinvenendosi    cosi'   lo   strumento   di   identificazione   della
 partecipazione giudiziale adeguata.
    Il momento piu' significativo di emersione di questa ricostruzione
 -  poi  ribadita,  come  si  e'  visto,  anche  dalla  piu'   recente
 giurisprudenza  -  sembra  potersi cogliere nella sentenza n. 26/1980
 con la quale e' stato chiaramente assente che dai  parametri  di  cui
 agli  articoli 36 e 38 della Costituzione scaturisce "una particolare
 protezione del lavoratore,  nel  senso  che  il  suo  trattamento  di
 quiescenza,  al  pari  della  retribuzione  in costanza del servizio,
 della quale  costituisce  sostanzialmente  un  prolungamento  a  fini
 prudenziali,  deve  essere  proporzionato  alla  qualita'  del lavoro
 prestato e deve, in ogni caso, assicurare al lavoratore  medesimo  ed
 alla  sua  famiglia  i  mezzi adeguati alle loro esigenze di vita per
 un'esistenza libera e dignitosa: proporzionalita' ed adeguatezza  che
 non debbano sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo,
 ma vanno costantemente assicurate anche nel proseguo, in relazione ai
 mutamenti dei poteri di acquisto della moneta".
    L'insegnamento  che se ne trae non si presta ad equivoci, non solo
 la difesa  del  potere  di  acquisto  risponde  ad  un'ingerenza  che
 accomuna  il  titolare di crediti per prestazioni previdenziali ed il
 titolare  di  crediti  di  lavoro  -  onde  non  puo'  omettersi   di
 raccogliere  ancora, ad ulteriore conferma di quanto sopra osservato,
 il monito all'assicurazione di un'effettiva parita' di trattamento in
 parte  qua  -,  ma  la  garanzia  di  siffatta difesa va ricercata ed
 individuata appunto nell'art. 36  della  Costituzione,  che  non  e',
 quindi,  precetto  circoscritto esclusivamente alla durata della vita
 lavorativa ed alle implicazioni  economiche  di  una  occupazione  in
 atto,  ma  copre  anche  i profili previdenziali della prestazione di
 lavoro, con  specifico  riguardo  al  problema  dell'adeguatezza  dei
 relativi  trattamenti e della conservazione nel tempo della medesima.
    Ed  allora,  posto  che  l'art.  429,  terzo  comma  del codice di
 procedura civile, costituisce strumento di attivazione  dell'art.  36
 della  Costituzione (v. Corte costituzionale n. 204/1989 citato), non
 puo' non influirne che, relativamente ai crediti  i  quali  per  loro
 natura,  restano  assoggettati  alla  particolare  protezione di tale
 precetto, l'effettiva difesa del potere  di  acquisto  del  creditore
 rispetto  al fenomeno della svalutazione appare coerente col precetto
 medesimo allorche'  venga  realizzata  con  la  tecnica  propria  dei
 crediti  di  valore, che porta non solo a commisurare l'entita' della
 prestazione dovuta ai  nuovi  valori  della  moneta,  ma  altresi'  a
 compensare  il  pregiudizio subito per la mancata disponibilita' (fin
 dal giorno della maturazione del diritto)  della  somma  espressa  in
 tali valori.
    Solo  in  tal  modo  la  conseguenza  del ritardo nell'adempimento
 vengono compiutamente rimosse, assicurandosi la concreta possibilita'
 che  un determinato livello di trattamento economico - al quale cosi'
 il lavoratore come il creditore di  prestazioni  previdenziali  hanno
 diritto  per  essere lo stesso, in un dato momento, il piu' prossimo,
 in vista della conciliazione di contrapposti  interessi  (per  quanti
 piu'  propriamente  concerne  i  rapporti  di  lavoro  in atto) o del
 rinvenimento di un punto di equilibrio fra le esigenze individuali  e
 quelle collettive (con precipuo riguardo all'opportunita' del sistema
 di sicurezza sociale), al, modello imposto dalla norma costituzionale
 -  non  abbia a subire l'effetto comprensivo di fattori estranei alla
 logica di tali  equilibri  e  nondimeno  idonei  ad  allontanarlo  da
 siffatto modello.
    Ne'  puo'  omettersi di rilevare che la necessita' di un'effettiva
 compiutezza delle tecniche di rimozione del pregiudizio connesso alla
 svalutazione si apprezza in modo particolarmente pressante proprio in
 relazione  alle  prestazioni  previdenziali  e'  nei   livelli,   nel
 contingente  quadro  delle  compatibilita' finanziarie, conseguono ad
 una valutazione del legislatore, che, pur dovendosi  preservare,  nel
 rispetto della discrezionalita' che a questi in materia compete, come
 la piu' idonea ed assicurare il conseguimento degli obiettivi imposti
 dalla  norma  primaria,  certamente  rinviene  il  suddetto  punto di
 equilibrio in posizione piu' prossima alla salvaguardia di elementari
 esigenze  di  vita  (basti  pensare soltanto ai trattamenti minimi di
 pensione) che non dell'esistenza "libera e dignitosa"  e  percio'  in
 posizione  intrinsecamente  precaria  e  piu'  esposta  ai  rischi di
 fattori perturbanti, del tipo ricordato, la cui inefficenza,  sebbene
 attinente  alla  patologia  del  sistema  e,  quindi,  estranea,  per
 definizione, al menzionato quadro di riferimento, finisce,  poi,  per
 incidere  sull'esito  di  valutazioni compiute dal legislatore stesso
 alla stregua di quest'ultimo.
   5.  -  Non  dissimili  considerazioni,  atteso  il  gia'  segnalato
 collegamento che, in parte qua, deve porsi fra l'art. 36 e l'art.  38
 della Costituzione, inducono a ritenere che la denegata appicabilita'
 dell'art. 429, terzo  comma,  del  codice  di  procedura  civile,  ai
 crediti  per  prestazioni  previdenziali vulneri anche il precetto di
 cui al terzo comma della seconda di dette norme.
    Assunto,  invero,  un  determinato  trattamento previdenziale come
 quello che, in dato momento,  il  legislatore  ha  reputato  il  piu'
 idoneo  ad assicurare all'interessato mezzi adeguati alle esigenze di
 vita e ritenuto che, coerentemente con la sua peculiare natura,  tale
 trattamento  va  assicurato  in termini reali, non diversamente dalla
 prestazione oggetto di obbligazioni di valore, e'  conseguenziale  il
 rilievo  che  la  negazione  al  relativo credito della piu' incisiva
 (perche', attraverso il cumulo della rivalutazione e degli  interessi
 decorrenti  dal di' della maturazione del diritto, consegue l'effetto
 sia di compensare il creditore del pregiudizio subito a  causa  della
 mancata  tempestiva  disponibilita'  della  somma  dovutagli  sia  di
 assicurare la commisurazione di  questa  ai  nuovi  valori  monetari)
 protezione apprestata dal diritto vivente ai creditori di prestazioni
 siffatte si risolva in una compressione verso il  basso  del  livello
 del  trattamento  stesso,  cosi' allontanandolo da quel punto in cui,
 per effetto della suddetta valutazione legislativa, poteva  ritenersi
 sussistente   la   sua   capacita'  di  realizzare  il  cennato  fine
 costituzionalmente garantito.